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11/2/2011

IL PAZIENTE COME VITTIMA

 

Pubblichiamo il testo di una conversazione  che si è tenuta nel Gruppo del focus relativa appunto all'argomento.

 

Allegati:

 

Commenti:

10 - Milton Monteverde

29/04/2011 - 11:25

Insieme ai membri del gruppo del Focus desidero ringraziare la dott.ssa Cuccini e i componenti del Corso di specializzazione in psicoterapia dell'età evolutiva per il loro contributo al tema proposto. I loro interventi risultano particolarmente interessanti proprio perchè nel corso della discussione del gruppo del Focus è stata più volte sottolineata la difficoltà per i terapeuti dell'infanzia e dell'adolescenza nell'evitare di assumere un atteggiamento colpevolizzante nei confronti dei genitori o di chi ha la responsabilità di accudire il bambino o l'adolescente in terapia. I contributi riflettono la ricca esperienza pratica acquisita nell'affrontare la problematica specifica individuata nell'articolo del Focus.

09 - LUIGINA CUCCINI

18/04/2011 - 16:22

La lettura del contributo apparso sul Focus del Centro “Il paziente come vittima” ha suscitato vivo interesse e vivaci reazioni nei partecipanti (Dr.ssa Silvia Franceschetti; Dr.ssa Lucia Lugaresi, Dr.ssa Laura Moretta, Dr.ssa Graziella Nanni, Dr.ssa Elvira Paderno, Dr.ssa Oriana Papa, Dr.ssa Patrizia Vallario e Dr.ssa Paola Veggiotti.) al Corso di Perfezionamento in Psicoterapia Psicoanalitica Infantile da me condotto. Abbiamo resistito alla tentazione di colpevolizzare il dott. Monteverde che colpevolizza i terapeuti infantili che colpevolizzano i genitori...facilitate dal fatto che (purtroppo) nessuna di noi può più considerarsi una “giovane alle prime armi”. Abbiamo anche resistito alla tentazione ancora più forte di ‘fare le vittime’: la psicoterapia infantile,affermano fonti autorevoli, è molto più difficile e faticosa che non quella dell'adulto .La decisione è stata pertanto quella di riflettere sui contenuti del contributo, su alcuni peculiari aspetti del nostro lavoro, di discuterne e persino di comunicare i nostri pensieri a riguardo. Anzitutto siamo rimaste molto colpite dalla frase di J.P. Sartre che pensiamo diverrà una specie di vademecum nel nostro lavoro con gli adulti e con gli adolescenti, che cercano la nostra alleanza, o persino la nostra complicità, per scrollarsi di dosso i legami infantili con i loro genitori divenuti sempre più conflittuali. Con i bambini dovrebbe risuonare: “Non è importante quello che ti stanno facendo...” e ovviamente non è applicabile, né d'altronde intendeva esserlo. La sollecitazione del dottor Monteverde a privilegiare la ricerca su noi stessi è stata recepita da tutto il gruppo come condivisibile senza se e senza ma. Nel mondo -non solo interno- dei nostri piccoli pazienti popolato e talora affollato da genitori,a volte divorziati e con nuove famiglie,fratelli naturali e acquisiti,insegnanti, cui si aggiungono a volte purtroppo tribunali,educatori,famiglie affidatarie, il nostro lavoro introspettivo è di certo un'utile bussola per non farci perdere l'orientamento volto sempre e comunque nella direzione della tutela del bambino. La domanda (pag. 2 dell'articolo) “cosa porta l'analista a pensare al proprio paziente come ad una vittima?” meriterebbe per noi terapeuti infantili spazi di risposta assai più ampi. Qui ci limitiamo a differenziare quelle gravi situazioni in cui il bambino-che non può sottrarsi anche se lo vuole all'azione dell'adulto- corre seri rischi di essere davvero una vittima, da quelle situazioni in cui il fatto stesso che sono i genitori a cercare il nostro aiuto rende la definizione di “vittima” inappropriata. Le considerazioni presenti a pag. 3, del tutto valide per gli adolescenti,non sono invece ‘cucite su misura’ dei bambini. I bambini, e i loro terapeuti, hanno costantemente a che fare con la mamma reale, il papà reale, ecc. Ciò non significa che essi siano in rapporto soltanto con i loro oggetti esterni ai quali sono peraltro ancora fortemente ancorati; il loro mondo interno si sta via via strutturando e cambia continuamente da una fase di sviluppo all'altra,ma gli oggetti esterni “parlano più forte”. Non significa neppure che i loro oggetti interni vadano formandosi come copie fedeli di quelli esterni:essi sono plasmati dalle caratteristiche cognitive, affettive etc. del bambino stesso che può pertanto percepire una mamma depressa come 'cattiva', una restrizione alla sua impulsività come un atto ostile,ecc. Pertanto “(...) il terapeuta infantile deve muoversi con flessibilità fra se stesso, il bambino, i suoi genitori reali e quelli internalizzati del passato in precise fasi di sviluppo.”(A.Freud) Sempre a pag. 3, concordiamo che la ricerca del “trauma” che giustifichi l'attuale disturbo del bambino sia quanto meno fuorviante. Tuttavia,quando il bambino ha un'età in cui l'ambiente ha ancora un'influenza attiva su di lui, il riconoscere il coinvolgimento dei genitori in primo luogo e di altre importanti figure di riferimento nei suoi conflitti e nei suoi sintomi,la parte che essi hanno nella formazione,mantenimento, o esacerbazione degli stessi non significa ricercare i colpevoli. Significa semmai domandarsi 'chi è il paziente da aiutare?' Se un terapeuta persiste nell'uso e abuso della parola 'colpa' anche-si spera- soltanto pensata,forse dovrebbe insistere su quella ‘ricerca su noi stessi’ di cui si parlava poco fa. Va infine tenuto presente che - fatta eccezione per i bambini allontanati dalle famiglie d'origine - è con i genitori oltre che con il bambino, se ne ha l'età, che facciamo un ‘contratto di terapia’. Dopo i primi colloqui con loro e, se è il caso, l'osservazione diagnostica del bambino, proponiamo loro l'aiuto che ci sembra più idoneo e più accettabile: possiamo continuare a vedere soltanto i genitori,aiutando loro ad aiutare il bambino,possiamo optare per una terapia congiunta mamma-bambino o genitori-bambino, oppure proporre una terapia per il bambino stesso;anche in questo caso i genitori parteciperanno regolarmente alla terapia con colloqui tanto più frequenti quanto più il bambino è piccolo; ovviamente saranno loro a portare il bambino in seduta anche quando non lo vuole (accade spesso),a pagare la terapia etc. L'alleanza di lavoro con loro anche in questo caso è la “conditio sine qua non” e andrà costantemente monitorata e coltivata: ci saranno inevitabili collusioni con possibili resistenze del bambino,altrettanto inevitabili intrusioni nella terapia del bambino, resistenze appartenenti ai genitori stessi, ma fanno parte del nostro lavoro.

08 - Paola Veggiotti

18/04/2011 - 10:59

Lavoro in un Centro di Riabilitazione neuromotoria e di N.P.I. e mi occupo prevalentemente di bambini e ragazzi portatori di disabilità e dei loro genitori. Nei colloqui con loro ricorre spesso la parola 'colpa' che essi, soprattutto le madri, riferiscono a se stesse. Si sentono in colpa un po' per tutto, per le sofferenze del figlio, per quello che potrà essere il suo futuro quando loro genitori non ci saranno più, perchè hanno perso la pazienza di fronte a un suo rituale estenuante...Cerco, insieme con i colleghi che hanno in cura il bambino, di accogliere il loro dolore,di infondere fiducia e speranza, e anche e soprattutto di aiutarli a liberarsi dalle 'colpe'. E' un compito difficile. Come ricordavamo nelle ultime discussioni in gruppo a proposito delle influenze culturali di cui si parla nell'articolo, certe teorie laddove hanno trovato terreno fertile sono difficili da sradicare. Si diceva,per esempio, a proposito della patogenesi dell'autismo, che la teoria delle ‘mamme frigorifero’ benché da tempo superata e ampiamente smentita ogni tanto ricompare sotto diverse vesti.

07 - Patrizia Vallario

18/04/2011 - 10:57

Riflettendo sugli stimoli presenti nell'articolo per quanto mi riguarda ritengo di portare la mia attenzione,quando effettuo con i genitori la raccolta anamnestica (per es. gravidanza, parto, allattamento, ecc.) su eventuali aspetti critici che possono aver turbato lo sviluppo, l'accrescimento psicofisico del bambino e le sue precoci relazioni con la mamma e con il contesto familiare. Le prime separazioni e perdite affrontate dai bambini osservati destano in me attenzione e risonanza. Questo mi succede in particolare quando incontro i genitori per conoscere la situazione dei bambini più o meno fino alla quinta elementare e al passaggio alle medie. Già quando mi occupo della fase preadolescenziale cerco meno le tappe precedenti e tendo a concentrarmi maggiormente sugli accadimenti recenti,sulle trasformazioni fisiche e psichiche in atto e su come vengono vissute dalla famiglia e dai ragazzi stessi. Chiedo quali modificazioni comportamentali hanno colpito i genitori e i ragazzi, quali reazioni emotive hanno suscitato .Cerco di capire il clima emotivo presente in quella famiglia (ansia,nervosismi,insofferenza,chiusura,collera...) dal racconto dei genitori e da quanto osservo in seduta. Mi faccio raccontare come hanno reagito in particolari situazioni,come si sono sentiti. Nel mio lavoro, una parte consistente è occupata da situazioni di incuria e/o maltrattamenti. Noto spesso come i genitori,eccetto alcuni, tendono a negare o minimizzare fatti e sentimenti;nelle coppie di genitori separati noto come spesso eventi e comportamenti negativi vengano attribuiti all'altro coniuge. Cerco di capire quale legame nonostante tutto genitori e figli sono riusciti a stabilire e mantenere nonostante difficoltà anche consistenti. I genitori di bambini fino a circa undici anni sento molto importante vederli il più spesso possibile,mi sembra di avere nei loro confronti un atteggiamento comprensivo e di partecipazione alle loro difficoltà. Talvolta mi sento insofferente di fronte a certe rigidità o stili ripetitivi. I genitori di adolescenti li incontro più saltuariamente; mi sento molto vicina ai loro disorientamenti,frustrazioni,nervosismo,perdite di controllo. Forse dentro di me anni fa sarei stata più critica di fronte a certe reazioni dei genitori;ultimamente mi sento più vicina alla loro fatica (ho una figlia adolescente). Mi accorgo nei colloqui con le coppie che non mi è facile mantenere un'equidistanza:ci sono aspetti caratteriali che mi risultano gradevoli e altri fastidiosi;cerco pertanto di mantenere l'attenzione sui miei vissuti per non allearmi con uno dei due e a volte è molto faticoso. Sono rimasta molto colpita dalla frase di J.P.Sartre che introduce l'articolo, mi ha stimolato anche dopo la lettura dello stesso a prestare attenzione non tanto e non solo all'evento esterno bensì alla 'potenza' della rielaborazione,alla risonanza interna che il paziente mi comunica e che nel mio intimo acquista pure il suo suono particolare.

06 - Oriana Papa

18/04/2011 - 10:56

Riguardo la sollecitazione di riflessione rivolta a noi psicoterapeuti infantili attraverso la discussione de ”Il paziente come vittima”mi sono venuti in mente un po' tutti gli studi fatti su Anna Freud, Joseph e Anne-Marie Sandler e l'esperienza messa insieme in questi lunghi anni. Credo che lo spunto offerto dal dottor Coen meditato e sviluppato dal dottor Monteverde non sia di sicuro casuale. Dal confronto emerso nel gruppo con la dott.ssa Cuccini e le Colleghe del mercoledi ho fissato i seguenti punti: 1 Prestare attenzione sempre a riconoscere e differenziare quanto nel mio atteggiamento attiene alla mia persona ,al mio carattere e modo di essere e quanto riguarda invece il carattere e la particolare situazione emotiva del paziente. Come il Dott.Monteverde ricorda, la ricerca da privilegiare è quella che facciamo su noi stessi. 2 Colludere con il paziente nell'atteggiamento ricordato significa non rispettarlo,non riconoscergli la capacità di una certa autonomia rispetto ai processi di adattamento sviluppati fin dall'infanzia in relazione alle esperienze favorevoli e sfavorevoli vissute. Sono pienamente d'accordo con quanto detto nell'articolo,sono rischi che sento di correre. 3 Come psicoterapeuta infantile mi vengono alcune considerazioni e riflessioni che faccio pensando all'esperienza acquisita e che continuamente acquisisco:con i bambini è necessario tener sempre conto dell'età e del fatto che i genitori per il bambino sono oggetti reali quindi il nostro paziente non è solo il bambino ma in un certo senso lo sono anche i genitori e comunque anche per i bambini l'analisi del transfert e la comprensione del controtransfert sono elementi essenziali. 4 L'alleanza si fa con il genitore:spesso il bambino esprime il disagio di un genitore oppure esternalizza dinamiche familiari. Non va dimenticato che nel rapporto con il terapeuta il bambino può vivere un conflitto di lealtà nei confronti dei genitori e questo se non compreso potrebbe compromettere la continuazione del lavoro. 5 Occorre inoltre ricordare che i tempi del bambino sono molto diversi da quelli dell'adulto e che la tecnica della psicoterapia infantile è a sua volta molto diversa. 6 E'importante soffermarsi sempre sui sentimenti di controtransfert come uno degli strumenti per comprendere ciò che sta accadendo nella terapia 7 I meccanismi difensivi che il bambino usa sono primitivi e talvolta per il terapeuta può essere molto difficile fare da contenitore. 8 Talvolta una risposta controtransferale può essere suscitata dal ruolo al quale il paziente sta costringendo il terapeuta e noi terapeuti infantili possiamo non accorgerci di aver corrisposto al ruolo fino al momento in cui si verifica un agito controtransferale (come ricorda la sig.ra Sandler).

05 - Elvira Paderno

18/04/2011 - 10:51

La lettura dell'articolo “Il paziente come vittima” ha sollecitato alcune riflessioni relativamente al nostro lavoro di terapeuti infantili. Il lavoro terapeutico con i bambini è complesso e denso di implicazioni anche con il mondo reale del bambino stesso,ed il terapeuta infantile deve necessariamente interfacciarsi con le figure reali (genitori,famiglia allargata,insegnanti...). E' indubbio che spesso ci si trovi a confronto con situazioni difficili e con genitori che a loro volta vivono situazioni problematiche o possiedono una particolare struttura di personalità che non possono non influire sul bambino. Una parte importante del lavoro di terapeuti infantili sta dunque nel riuscire a costruire una alleanza di lavoro non solo con i bambini ma anche con i genitori e gli adulti significativi e,ponendosi in ascolto delle emozioni suscitate nella relazione terapeutica dal transfert e soprattutto dal controtransfert,cercare di non mettere in atto reazioni colpevolizzanti. Mi sembra che tale attenzione sia diventata,sia attraverso la formazione che nella pratica clinica,un elemento fondante del lavoro di terapeuta infantile. La consapevolezza che agli occhi del bambino anche il genitore più in difficoltà rappresenta un importante riferimento orienta il lavoro nella direzione di sostenere un miglior sviluppo e adattamento nella relazione genitore-figlio. E' pur vero che la condizione di dipendenza dall'adulto che il bambino fisiologicamente vive può indurre facilmente a lasciarsi trascinare dalla realtà esterna e dalla ricerca di un nesso causa-effetto negli accadimenti di vita,lasciando in secondo piano o non riconoscendo affatto l'importanza del mondo interno del bambino stesso. La complessità del lavoro con i bambini sta nel tenere in considerazione sia il mondo interno che il mondo esterno dei nostri pazienti e anche quello dei loro genitori nonché le reciproche influenze nella realtà e nelle fantasie o nelle proiezioni.

04 - Graziella Nanni

18/04/2011 - 10:49

Due brevi osservazioni:nel corso di molti anni di lavoro ho via via constatato come la mia capacità di comprendere le difficoltà che incontrano i genitori dei bambini in terapia e di empatizzare con loro sia stata rafforzata, come è ovvio, anche dall'avere io stessa sperimentato ansie, dubbi, preoccupazioni simili, senza nulla togliere all'importanza del continuo lavoro su se stessi di cui si parla nell'articolo. Riguardo al “paziente come vittima” vorrei sottolineare che il sapere che il bambino è stato di fatto vittima, non vuol dire continuare a trattarlo come tale. Nel mio lavoro mi occupo purtroppo frequentemente di bambini e ragazzi allontanati da genitori abusanti e/o violenti e affidati a comunità o famiglie affidatarie. Non si renderebbe loro un buon servizio se in terapia si avesse nei loro confronti un atteggiamento pietistico e consolatorio, che essi stessi rifiuterebbero, o si esprimessero giudizi negativi sui loro genitori.

03 - Laura Moretta

18/04/2011 - 10:47

Nell'affrontare il problema del paziente come vittima si sottolinea come l'alleanza emotiva con i genitori da parte del terapeuta infantile sia compito problematico poiché nella mente del terapeuta i genitori sono quasi sempre colpevoli. Tale riflessione mi ha portato a chiedermi se a tale colpevolezza non si possa sostituire il concetto di responsabilità che i genitori hanno nel promuovere l'instaurarsi del sentimento di sicurezza del bambino.L'alleanza emotiva con loro dovrebbe portare a un ascolto empatico che permetta al terapeuta di fare da tramite tra i vissuti e i sentimenti dei genitori e i vissuti e i sentimenti del bambino (espressi soprattutto attraverso l'azione, il linguaggio del corpo e il gioco simbolico) utilizzando il proprio vissuto controtransferale e la conoscenza di se stessi. Nella nostra pratica clinica l' incontro con i genitori reali è necessario e auspicabile,avviene ancor prima di conoscere il bambino,anzi, noi ci rappresentiamo il nostro paziente innanzi tutto attraverso il racconto ed i vissuti che i genitori ci portano nei primi incontri di consultazione. Quando siamo con il bambino dobbiamo differenziare tra i genitori reali e i genitori dentro,dobbiamo cioè pensare ai genitori che incontriamo fisicamente e i genitori che ha dentro il bambino.

02 - Lucia Lugaresi

18/04/2011 - 10:43

I passaggi de “Il paziente come vittima” che mi hanno fatto riflettere sono due: 1. Alla pag. 3 del citato articolo si afferma che nella mente dei terapeuti infantili e dei terapeuti di adolescenti sia particolarmente frequente un pregiudizio vittimistico per cui essi concepiscono i loro pazienti come vittime di qualcosa,in particolare dei loro genitori. Si aggiunge che “l'alleanza emotiva con questi ultimi è un compito difficile e problematico”. 2. Più avanti alla pag .5 si dice che per i terapeuti infantili è “estremamente difficile venire a contatto con la sofferenza infantile senza cercare immediatamente uno o più carnefici da stigmatizzare nel tentativo di ridurre la sofferenza conseguente alla identificazione con il dolore dei pazienti”. Durante la lettura di questo articolo ho ripensato alla mia breve esperienza clinica come terapeuta infantile (9 anni di attività come libera professionista) ed ho immediatamente sentito il bisogno di ricercare dentro di me quelle esperienze emotive in cui questo pregiudizio vittimistico è stato attivo e quelle in cui ho percepito il rischio di colpevolizzare i genitori rispetto alla sintomatologia dei piccoli pazienti di cui mi veniva chiesto di farmi carico. Questa riflessione è stata difficile e turbolenta. Non so se ho preso la direzione giusta,ma so che ho avuto bisogno di guardare anche alla mia storia personale e al perchè io abbia scelto di fare questo lavoro attraverso il mio attuale lavoro di analisi personale. Cercherò di essere ordinata nel tentativo di esporre alcune riflessioni che non sono solo il frutto di studio,ma soprattutto di confronto nella professione clinica con i bisogni dei bambini e con le richieste dei loro genitori. 1 Il bambino come paziente vittima dei genitori Per un terapeuta infantile il primo incontro con le problematiche del bambino avviene con la richiesta di consulenza da parte di almeno uno dei genitori. Ciò significa entrare in relazione con i vissuti,i sentimenti e le rappresentazioni mentali, le possibili proiezioni dei problemi non risolti di quel genitore reale o di entrambi i genitori. Ascoltata la loro sofferenza che a volte è caratterizzata dall'ansia di risolvere tutto velocemente,altre volte dalla paura di sentirsi incapaci nel loro compito genitoriale e non da ultimo dalla rabbia per la fatica che il proprio figlio porta a vivere,accettano che il terapeuta incontri il bambino. Il bambino a seconda dell'età e nella misura in cui si fida dell'adulto entrerà nella stanza di terapia con curiosità ma senza la consapevolezza di avere bisogno ,perchè non è lui che chiede aiuto. Inoltre nei casi in cui i sintomi del bambino sono egodistonici non è certamente ad una persona estranea che pensa di rivolgersi per risolverli,ma al contrario penserà ai propri genitori qualsiasi sia la qualità della loro relazione. Anna Freud ricorda in “Al di là del miglior interesse del bambino” al cap.2 quando parla de “La relazione genitore-bambino” che “ ...lo sviluppo di ogni bambino si schiude in risposta alle influenze ambientali alle quali esso è esposto. Le sue capacità emozionali intellettive e morali prosperano non in un vuoto e non senza conflitti all'interno delle sue relazioni familiari, e queste determinano le sue relazioni sociali...tuttavia spesso si tende ad ignorare che il bambino interagisce con l'ambiente sulla base delle sue caratteristiche innate...Vedere i bambini come specchio del loro background rende l'osservatore cieco sull'unicità delle loro caratteristiche vitali,sulle quali sono basati i loro specifici bisogni di sviluppo...Cosi i bambini non sono adulti in miniatura,sono esseri per sé diversi dai più grandi nella natura mentale, nel loro funzionamento,nella comprensione degli eventi e nelle reazioni ad essi.(...).Dunque l'incontro con il piccolo paziente è necessariamente preceduto dalla conoscenza di lui attraverso i pensieri e i sentimenti dei genitori. Una volta entrato nella stanza di terapia come terapeuti infantili possiamo incontrare non solo il bambino reale ma anche e soprattutto il “bambino dentro” e cioè possiamo osservare come stia strutturando il suo mondo oggettuale interno,le sue istanze intrapsichiche e quali siano i conflitti che producono i sintomi manifesti. Allora può accadere come terapeuti infantili di trovarci di fronte a un fenomeno che Selma Fraiberg definisce “I fantasmi nella stanza dei bambini” e cioè si può osservare come la problematica del bambino possa in parte essere legata alla sofferenza e all'angoscia infantile dei genitori non ricordata ma rimossa e isolata dagli affetti. Questo dolore irrisolto viene spostato nella relazione attuale con il proprio bambino identificandosi essi stessi con “gli aggressori e i traditori di quel passato” piuttosto che con il proprio ferito bambino dentro. A riguardo la Fraiberg precisa:”Questi fantasmi sono i visitatori del passato non ricordato dei genitori...nei casi migliori questi visitatori vengomo cacciati...i legami affettivi proteggono i bambini e i loro genitori dagli intrusi.” Ma nei casi in cui ciò non avviene il piccolo paziente può essere vittima di una sofferenza in parte non sua. Il genitore è a sua volta lui stesso vittima del proprio dolore. 2 Identificazione con il dolore dei bambini Quando in terapia vengono portati bambini che hanno esperienze di vita drammatiche e traumatiche ,come nel caso della perdita di uno o entrambi i genitori oppure nei casi di separazioni coniugali molto conflittuali dove il bambino è oggetto di contese e rivendicazioni,oppure nei casi di bambini maltrattati o abusati che vivono in affidamento familiare o collocati in comunità residenziali è umanamente impossibile non pensare e non sentire il peso di queste influenze ambientali!Ciò di cui soffre il bambino con queste esperienze è anche il sentirsi diverso,umiliato e impoverito dall'impotenza, dall'essere costretto a subire. Empatizzare con questi sentimenti fa crescere il bisogno, nel controtransfert in terapia, di proteggere il piccolo paziente dal dolore psichico. Ma qual è il compito terapeutico per l'evoluzione psichica del bambino? Penso che la terapia infantile debba fornire il contenitore dentro il quale è possibile condividere questi sentimenti nel rispetto e nella protezione del processo evolutivo.

01 - Silvia Franceschetti

18/04/2011 - 10:39

Svolgo il mio lavoro di psicoterapeuta infantile da soli sei anni,un tempo che ritengo “analiticamente” troppo breve per sentirmi al riparo da tutti i rischi citati nell'articolo del blog. Credo che il mio “mondo interno” cada spesso nella tentazione di schierarsi con le parti più indifese dei pazienti,siano essi adulti o bambini. “Mea culpa” a parte,vorrei fare però alcune considerazioni in merito alla psicoterapia infantile,partendo dalla formulazione eziologica di Freud che ci suggerisce di tenere in buon conto sia le influenze interne che quelle esterne:”...vi sono persone la cui costituzione sessuale non le avrebbe condotte alla nevrosi se non ci fossero state certe esperienze,e queste esperienze non avrebbero avuto un effetto traumatico su di loro se la loro libido fosse stata orientata in modo diverso.”(S.Freud 1916-17) Il setting del terapeuta infantile sovrabbonda di “oggetti esterni”e reali quali genitori,nonni,insegnanti,assistenti sociali e tribunali, e di fatti correnti dai quali noi non possiamo prescindere in favore unicamente del mondo interno e delle fantasie del paziente. Vorrei sottolineare infine quanto l'aspetto della dipendenza materiale ed affettiva del bambino dagli adulti possa divenire un ostacolo nella relazione terapeutica (paura di perdere l'amore del genitore,conflitto di lealtà) e come tale mancanza di autonomia pesi sul determinare l'inizio o l'interruzione di un'analisi.

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